24 Febbraio 2014

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Carnevale: memorie di un breve periodo di festa

Carnevale era festa per i ragazzi. Gli adulti non partecipavano quasi a questa festa; solo le donne se ne occupavano per cuocere dei dolci appositi e comprare qualche maschera per i figli

Faceva ancora freddo, c’era molta voglia di sfogarsi rincorrendosi, c’era voglia di andare oltre le regole solite della vita di tutti i giorni, con piccoli scherzi accettati solo perché appunto era carnevale

Per la verità qualcosa “di adulto” era rimasto e di questo ho un ricordo piuttosto vago, soprattutto per il timore che sentivo da ragazzino: un gruppo di giovani adulti girava per le strade ghiaiate e fangose mascherato in modo che a me incuteva un notevole timore; uno di questi, vestito in modo stravagante con stracci di vario tipo, portava la maschera di un bue con due corna vere in testa e si avvicinava alle case, ai ragazzini, ma anche agli adulti, muovendo rapidamente la testa per esibire le corna, quasi a voler incornare le persone e ciò corrispondeva ad una situazione reale spesso vissuta nelle stalle e nelle masserie, dove il pericolo di venire incornati da un toro era comunque in agguato

Molte famiglie avevano magari una sola mucca, giusto per il latte e il burro, non poche masserie, dette boarie, avevano stalle con molti capi bovini e non di rado dei tori, difficili da domare, necessari ovviamente per la riproduzione e con i quali bisognava saperci fare; ai ragazzini era ovviamente proibito avvicinarli e per altro loro stessi ne avevano timore.

Non ho mai approfondito questa messa in scena carnevalesca, anche perché questa usanza sparì sul finire degli anni cinquanta; credo che si trattasse di un rito pagano, come molti ne rimanevano, sia pure sotto le forme accoglienti delle pratiche religiose cristiane e cattoliche, che molto avevano assimilato della ritualità pagana legata ai cicli di vita della terra, della natura, dell’economia delle campagne, degli stili di vita dei contadini che di quello vivevano e che di quello facevano fondamentalmente la ragione della loro esistenza, in una grande e autoreferenziale fusione di fatica, credo religioso, passione e attaccamento per la loro terra e i loro animali

Ho sempre vissuto quella manifestazione di carnevale come un flash di meraviglia mista a grande timore, legato alla casa dei miei nonni paterni, casa che da ragazzino frequentavo spesso perché sempre molto animata da cugini e ragazzi del vicinato: era il mio piccolo centro di socializzazione, non troppo lontano da casa mia, in cui potevo trovare amicizia, relazione e un qualche gioco “con niente” perché non c’erano giocattoli veri e propri, ma giochi con la pura relazione di socialità che si realizzava in scherzi, rincorrersi e creatività

Tra ragazzini invece ci si trovava nella piazza del paese, con pochissime cose per fare un po’ di allegria: una maschera in cartoncino, una manciata di coriandoli e, solo per i pochi che avevano qualche soldino in più, un po’ di stelle filanti; le maschere di cartoncino che andavano per la maggiore riproducevano visi terrificanti di indiani d’America, altre ancora visi terrificanti e basta e venivano ancorate alle orecchie tramite due elastici sottili che, se si rompevano, davano un bel pizzicotto alle orecchie; maschere da poco, spesso si rompevano nell’occhiello del cartoncino per la debolezza del materiale, diventando presto inutilizzabili: si poteva praticare un secondo occhiello, ma molto vicino al primo, altrimenti sarebbe risultato impossibile indossarla; naturalmente il secondo occhiello, molto debole perché troppo vicino al primo, durava poco e così mestamente “si gettava la maschera”, rimanendo delusi e scontenti ad osservare chi ancora la conservava integra

Come si giocava: a rincorrersi, come al solito, simulando battaglie indiane, con strida e urla, cadute sui sassi, ammaccature e ginocchia sbucciate, calze rotte e un sicuro ceffone a casa se si rovinavano i pantaloncini, rigorosamente corti, magari già rappezzati

Le ragazzine partecipavano solo se c’erano manifestazioni “ufficiali” gestite dalla parrocchia o dall’asilo, naturalmente abbigliate secondo le tradizioni e gli stereotipi, che ancora resistono e che si rifanno a personaggi delle fiabe più diffuse, quindi fatine, cenerentole, colombine e così via; era escluso che partecipassero a giochi di strada con i maschi, giochi per altro piuttosto duri, che si basavano decisamente sulla performance fisica; più tardi, specie in città, i quartieri, gli asili e le parrocchie organizzavano vere e proprie sfilate di carnevale per i bambini, maschi e femmine, in cui si dava grande espressività ai costumi con grande inventiva e creatività nelle varianti, grande partecipazione dei genitori, carri addobbati in modo tale da destare meraviglia, stupore e favore per il risultato oltre che per il lavoro di preparazione svolto; tutto ciò era possibile in un contesto sociale e economico più evoluto ed economicamente sviluppato rispetto agli anni pre e post bellici; feste belle, molto partecipate, creative, scomparse sul finire degli anni ’80 col prevalere dirompetente e disgregante del rapporto individualista con la televisione prima, delle playstation poi e infine del PC; non per loro causa diretta, certo in concomitanza dei nuovi media e delle tendenze educative che in larga misura subirono fascino, linguaggio, facilità di intrattenimento di questi media

Torniamo al carnevale e vediamo che cos’era il carnevale in famiglia: era di fatto una festa di due dolci tipici, in aggiunta ad altri due dolci di casa, che di per sè erano dolci invernali ai quali i dolci di carnevale andavano ad aggiungersi

I tre dolci tipici erano le frittelle, dette frìtoe, i crostoli, detti gaejani e le favete, della stessa pasta dei crostoli. Questi dolci venivano naturalmente preparati dalle donne, madri, nonne, zie, con ricette base simili, ma spesso un po’ personalizzate, perché anche questi dolci erano un terreno di gara per dimostrare le proprie abilità, un modo di affermazione sociale e di farsi considerare da amiche, rivali, suocere, acquisite e potenziali, e madri

Per molti anni non feci per niente caso a come mia madre, che aveva imparato le ricette da sua madre, preparasse questi dolci; più avanti negli anni, considerai che avrei invece potuto imparare queste ricette e portare avanti una tradizione soppiantata dalla pasticceria artigianale e industriale, la quale aveva degli standard di produzione che davano sì risultati buoni, ma spesso con prodotti troppo pesanti e comunque decisamente lontani dai risultati amabilissimi e, dal mio punto di vista, eccellenti della pasticceria di casa e personalizzata; decisi così di impararle quelle ricette e di riprodurle tutti gli anni, nonostante fossi particolarmente oberato dagli impegni di lavoro: volevo dare alla mia famiglia e in particolare ai miei figli quei gusti irripetibili di cui avevo potuto godere finché ero rimasto in famiglia

Racconterò quindi qui de seguito la preparazione di frittelle, crostoli, favette, smejassa(non credo ci sia un termine italiano, ma somiglia parecchio alla pinza) e focaccia di casa

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