Feste e dolci

Carnevale: memorie di un breve periodo di festa

Carnevale era festa per i ragazzi. Gli adulti non partecipavano quasi a questa festa; solo le donne se ne occupavano per cuocere dei dolci appositi e comprare qualche maschera per i figli

Faceva ancora freddo, c’era molta voglia di sfogarsi rincorrendosi, c’era voglia di andare oltre le regole solite della vita di tutti i giorni, con piccoli scherzi accettati solo perché appunto era carnevale

Per la verità qualcosa “di adulto” era rimasto e di questo ho un ricordo piuttosto vago, soprattutto per il timore che sentivo da ragazzino: un gruppo di giovani adulti girava per le strade ghiaiate e fangose mascherato in modo che a me incuteva un notevole timore; uno di questi, vestito in modo stravagante con stracci di vario tipo, portava la maschera di un bue con due corna vere in testa e si avvicinava alle case, ai ragazzini, ma anche agli adulti, muovendo rapidamente la testa per esibire le corna, quasi a voler incornare le persone e ciò corrispondeva ad una situazione reale spesso vissuta nelle stalle e nelle masserie, dove il pericolo di venire incornati da un toro era comunque in agguato

Molte famiglie avevano magari una sola mucca, giusto per il latte e il burro, non poche masserie, dette boarie, avevano stalle con molti capi bovini e non di rado dei tori, difficili da domare, necessari ovviamente per la riproduzione e con i quali bisognava saperci fare; ai ragazzini era ovviamente proibito avvicinarli e per altro loro stessi ne avevano timore.

Non ho mai approfondito questa messa in scena carnevalesca, anche perché questa usanza sparì sul finire degli anni cinquanta; credo che si trattasse di un rito pagano, come molti ne rimanevano, sia pure sotto le forme accoglienti delle pratiche religiose cristiane e cattoliche, che molto avevano assimilato della ritualità pagana legata ai cicli di vita della terra, della natura, dell’economia delle campagne, degli stili di vita dei contadini che di quello vivevano e che di quello facevano fondamentalmente la ragione della loro esistenza, in una grande e autoreferenziale fusione di fatica, credo religioso, passione e attaccamento per la loro terra e i loro animali

Ho sempre vissuto quella manifestazione di carnevale come un flash di meraviglia mista a grande timore, legato alla casa dei miei nonni paterni, casa che da ragazzino frequentavo spesso perché sempre molto animata da cugini e ragazzi del vicinato: era il mio piccolo centro di socializzazione, non troppo lontano da casa mia, in cui potevo trovare amicizia, relazione e un qualche gioco “con niente” perché non c’erano giocattoli veri e propri, ma giochi con la pura relazione di socialità che si realizzava in scherzi, rincorrersi e creatività

Tra ragazzini invece ci si trovava nella piazza del paese, con pochissime cose per fare un po’ di allegria: una maschera in cartoncino, una manciata di coriandoli e, solo per i pochi che avevano qualche soldino in più, un po’ di stelle filanti; le maschere di cartoncino che andavano per la maggiore riproducevano visi terrificanti di indiani d’America, altre ancora visi terrificanti e basta e venivano ancorate alle orecchie tramite due elastici sottili che, se si rompevano, davano un bel pizzicotto alle orecchie; maschere da poco, spesso si rompevano nell’occhiello del cartoncino per la debolezza del materiale, diventando presto inutilizzabili: si poteva praticare un secondo occhiello, ma molto vicino al primo, altrimenti sarebbe risultato impossibile indossarla; naturalmente il secondo occhiello, molto debole perché troppo vicino al primo, durava poco e così mestamente “si gettava la maschera”, rimanendo delusi e scontenti ad osservare chi ancora la conservava integra

Come si giocava: a rincorrersi, come al solito, simulando battaglie indiane, con strida e urla, cadute sui sassi, ammaccature e ginocchia sbucciate, calze rotte e un sicuro ceffone a casa se si rovinavano i pantaloncini, rigorosamente corti, magari già rappezzati

Le ragazzine partecipavano solo se c’erano manifestazioni “ufficiali” gestite dalla parrocchia o dall’asilo, naturalmente abbigliate secondo le tradizioni e gli stereotipi, che ancora resistono e che si rifanno a personaggi delle fiabe più diffuse, quindi fatine, cenerentole, colombine e così via; era escluso che partecipassero a giochi di strada con i maschi, giochi per altro piuttosto duri, che si basavano decisamente sulla performance fisica; più tardi, specie in città, i quartieri, gli asili e le parrocchie organizzavano vere e proprie sfilate di carnevale per i bambini, maschi e femmine, in cui si dava grande espressività ai costumi con grande inventiva e creatività nelle varianti, grande partecipazione dei genitori, carri addobbati in modo tale da destare meraviglia, stupore e favore per il risultato oltre che per il lavoro di preparazione svolto; tutto ciò era possibile in un contesto sociale e economico più evoluto ed economicamente sviluppato rispetto agli anni pre e post bellici; feste belle, molto partecipate, creative, scomparse sul finire degli anni ’80 col prevalere dirompetente e disgregante del rapporto individualista con la televisione prima, delle playstation poi e infine del PC; non per loro causa diretta, certo in concomitanza dei nuovi media e delle tendenze educative che in larga misura subirono fascino, linguaggio, facilità di intrattenimento di questi media

Torniamo al carnevale e vediamo che cos’era il carnevale in famiglia: era di fatto una festa di due dolci tipici, in aggiunta ad altri due dolci di casa, che di per sè erano dolci invernali ai quali i dolci di carnevale andavano ad aggiungersi

I tre dolci tipici erano le frittelle, dette frìtoe, i crostoli, detti gaejani e le favete, della stessa pasta dei crostoli. Questi dolci venivano naturalmente preparati dalle donne, madri, nonne, zie, con ricette base simili, ma spesso un po’ personalizzate, perché anche questi dolci erano un terreno di gara per dimostrare le proprie abilità, un modo di affermazione sociale e di farsi considerare da amiche, rivali, suocere, acquisite e potenziali, e madri

Per molti anni non feci per niente caso a come mia madre, che aveva imparato le ricette da sua madre, preparasse questi dolci; più avanti negli anni, considerai che avrei invece potuto imparare queste ricette e portare avanti una tradizione soppiantata dalla pasticceria artigianale e industriale, la quale aveva degli standard di produzione che davano sì risultati buoni, ma spesso con prodotti troppo pesanti e comunque decisamente lontani dai risultati amabilissimi e, dal mio punto di vista, eccellenti della pasticceria di casa e personalizzata; decisi così di impararle quelle ricette e di riprodurle tutti gli anni, nonostante fossi particolarmente oberato dagli impegni di lavoro: volevo dare alla mia famiglia e in particolare ai miei figli quei gusti irripetibili di cui avevo potuto godere finché ero rimasto in famiglia

Racconterò quindi qui de seguito la preparazione di frittelle, crostoli, favette, smejassa(non credo ci sia un termine italiano, ma somiglia parecchio alla pinza) e focaccia di casa

Focaccia di casa

Ingredienti: farina fiore, uova (la farina è in subordine alle uova, si va a occhio, diciamo un paio di etti o poco più per uovo), burro fuso, strutto, un pizzicotto di sale, zucchero, uvetta; per le dosi bisogna andare a occhio, l’impasto deve essere morbido e poco denso in modo da stendere agevolmente l’impasto su un bandoncino da forno

La focaccia va quindi impastata come al solito e va stesa su un bandoncino da forno imburrato, al centro più alta che sui bordi, debitamente segnata a rombi in superficie con passata di rotella sulle diagonali a partire da angoli opposti in diagonale: serve a fare i pezzi una volta cotta; una volta la si cuoceva nel forno della stufa a legna e sotto il bandoncino andavano disposte delle braci, con risultati irripetibili dai forni elettrici di oggi; ad ogni modo cuocetela nel vostro forno a circa 180° finchè non sarà abbastanza dura e ben imbrunita, ma anche questo dipende dai vostri gusti: la si può fare più secca per berci un bicchiere di vino o più morbida per i bambini e la colazione

Anche questo dolce non si fa quasi più, eppure ci vuole davvero poco ed è buono e genuino.

Per i ragazzini il massimo era quindi avere tutti questi dolci nell’ultima settimana di carnevale; dopo sarebbe arrivata la quaresima, a rinforzare i non pochi rigori della vita in campagna nei primi sessant’anni del novecento.

Le favette

Favette cotte della tradizione

Avanzate un po’ di pasta dei crostoli, fatene qualche tondino sfregando la pasta tra le mani, diametro di due centimetri circa, non di più; tagliate a rondelle di circa un centimetro di spessore, schiacciatele un po’ al centro, tra pollice e indice, gettatele in padella, ritiratele quando si sono scurite sul tono beige molto carico, zucchero semolato, mangiatele fredde, tenetele fuori dal frigorifero, durano quanto i crostoli

Favette cotte della tradizione Dolci d’inverno, ma anche di carnevale

Smejiassa

Somiglia alla pinza, ma è più morbida e si può mangiare anche direttamente dalla pentola

Ingredienti: 250 grammi di farina da polenta, quella che avete in casa, meglio se bramata o di maranello, anche bianca e gialla mescolate; un po’ di pane vecchio fatto a pezzetti, 100 gr. di melassa di canna da zucchero, reperibile in mesticheria o da qualche alimentarista ben assortito, 100 grammi di zucchero semolato, del tipo che preferite, poco più di un litro di latte, due o tre pizzichi di sale, un uovo sbattuto, 10 gr. di pinoli, 50 gr. di cedrini a pezzettini, 60 gr. di uvetta, il succo di un’arancia grande tarocco o di due moro, buccia d’arancia a pezzettini battuti a coltello sul tagliere, massimo di mezza arancia, 10 gr. di olio d’oliva, 30 gr. di strutto, mezza bustina di lievito

Impastate una polentina giusta, non troppo liquida altrimenti vi ci vuole troppo forno, non troppo densa, altrimenti la smejassa non viene morbida; unite tutte le parti fredde, mescolate bene e per ultimo aggiungete l’uovo, rimescolate; imburrate e spolverate di pan grattato una teglia piuttosto alta da forno, metteteci l’impasto, sopra il quale potete stendere un velo di melassa o, se vi piace un po’ di crostina, di zucchero semolato

Smejassa appena sfornata

Infornate a temperatura di 160° a forno caldo, fatela andare per venti minuti, portate il forno a 180° per altri venti minuti, poi 200° fino a circa mezzora, tenendola ben sorvegliata; passati tre quarti d’ora controllate lo stadio di cottura con uno spiedino di legno; ritiratela quando lo spiedino esce piuttosto asciutto, diversamente avrete un po’ esagerato con il latte e continuerete per un po’ la cottura

Lasciate raffreddare un po’, capovolgete su un piatto di grandezza adeguata, fondo e comunque concavo, rovesciate poi la smejassa su un piatto piano; va mangiata tiepida

Se non vi va di fare le operazioni finali di doppia rovesciata potete lasciarla nella teglia e mangiarla appena sarà tiepida direttamente dalla teglia; se invece disponete di una buona teglia apribile potrete aprire e lasciarla sul fondo per poi offrirla agli amici con aria di dolce un po’ grezzo ma molto buono e nutriente

Smejassa tagliata

Questo dolce è praticamente scomparso, se ne trova ricetta ancora in un ricettario veneto e nella memoria di donne di campagna anziane

Le Frittelle

Gli ingredienti: mela grattugiata o spezzettata finemente a coltello (consigliato), potete variare con un pezzetto di pera decana, poi scorza di mezza arancia grattata o spezzettata a coltello, idem per la scorza di mezzo limone, 2 arance spremute, tarocco o moro, un limone spremuto, di Sicilia o di Sorrento, uvetta, tenuta a bagno in una scodella di acqua tiepida per una mezzoretta, un paio di fialette di rhum, vanilina, mezza bustina di lievito, zucchero quanto serve (dovete assaggiare l’impasto, in genere ne va dalle due alle tre manciate) due pizzichi di sale fino, 600 ml. almeno di latte, ma tenetene a disposizione dell’altro, tre uova sbattute, tre etti di farina gialla da polenta, bramata o di maranello, circa un etto e mezzo di farina fiore, ma ne servirà poi ancora un po’. 

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